LA SPONSORIZZAZIONE SPORTIVA CON RISVOLTI PENALI

Fra le fonti di finanziamento tipiche del settore no profit, soprattutto nello sport, figurano le somme percepite per servizi di pubblicità e/o sponsorizzazione.

La crescita esponenziale del fenomeno (e dei volumi) ha determinato, di riflesso, una crescente attenzione da parte dell’amministrazione finanziaria intenta ad individuare casi di utilizzo delle sponsorizzazioni a fini evasivi e/o elusivi.
La giurisprudenza sul tema si è spesso pronunciata (da ultimo la sentenza della Corte di Cassazione, n. 42892 depositata il 20 settembre 2017) censurando la “pratica” della sovrafatturazione, che spesso coinvolge anche realtà sportive, con pronunce anche in ambito penale.

 

Ma andiamo con ordine inquadrando inizialmente la questione dal punto di legale (civilistico e fiscale), onde averne un quadro completo ed esauriente.

 

Chiariamo anzitutto la differenza fra “pubblicità” e “sponsorizzazione”.

  • La pubblicità consiste generalmente nella diffusione a scopo promozionale di un messaggio, che illustra le qualità di un prodotto o di un marchio attraverso annunci, inserzioni su giornali e riviste, esposizioni di cartelloni e manifesti (attività promozionale “diretta”);
  • La sponsorizzazione ha lo scopo di collegare un marchio o un prodotto a un avvenimento (sportivo, culturale, di spettacolo, ecc.). Il ritorno promozionale, quindi, in tal caso, è “indiretto” e strettamente connesso al successo, alla diffusione, alla notorietà dell’avvenimento o dell’attività sponsorizzati.

In altri termini, mentre con la pubblicità si mira alla diffusione diretta di un messaggio finalizzato a promuovere le vendite di un determinato bene o servizio, con la sponsorizzazione le ASD/SSD permettono allo sponsor il diritto di associare il proprio marchio o il proprio prodotto alla manifestazione o a più eventi partecipati dalla ASD/SSD in modo da sfruttare tale visibilità presso il pubblico che partecipa ai predetti eventi.

 

Il contratto di sponsorizzazione (il più frequente fra i due) può definirsi, semplificando, un contratto in forza del quale una parte (sponsor) si obbliga ad una prestazione pecuniaria nei confronti di un’altra parte (sponsee) la quale si obbliga, a sua volta, a divulgare il nome o il marchio dello sponsor nell’ambito della propria attività. Nella pratica del mondo sportivo, in sostanza, la ASD/SSD, in virtù di tali accordi, assume l’obbligo di promuovere, nell’ambito della propria attività, l’immagine, il marchio, i prodotti dell’azienda sponsor, ricevendo come corrispettivo una somma di denaro.

Non esistendo un contenuto “tipico” del contratto di sponsorizzazione si ritiene che lo stesso debba contemplare almeno i seguenti elementi: – parti contraenti – descrizione dettagliata dell’oggetto del contratto – obblighi gravanti su ciascuna delle parti – durata del contratto – corrispettivo pattuito e modalità di pagamento – data e luogo della sottoscrizione – sottoscrizione autografa dei rappresentanti legali delle parti contraenti (preferibilmente su tutti i fogli del contratto). Nel contratto possono essere inserite ulteriori clausole per rendere più preciso e articolato il rapporto tra le parti. A titolo esemplificativo, si ricordano alcune frequentemente utilizzate: – tutela dell’immagine – attribuzioni delle responsabilità – diritti di esclusiva- patto di non concorrenza – clausola risolutiva espressa – clausola compromissoria.

Tali contratti non hanno l’obbligo di essere redatti per iscritto né di essere registrati. Tuttavia la forma scritta garantisce maggiore chiarezza nei rapporti tra le parti e/o ai fini probatori anche per quanto attiene ai profili fiscali. Nel caso in cui lo stesso dovesse diventare oggetto di controversie fra le parti o con i terzi la relativa registrazione comporta il pagamento di una imposta di registro fissa di euro 200,00 oltre all’assolvimento dell’imposta di bollo.

 

Il contratto di sponsorizzazione da un punto di vista fiscale è molto vantaggioso per entrambe le parti.

Fino ad un corrispettivo annuo di euro 200.000,00, infatti, per l’impresa sponsor ci sono solo benefici:

  • l’IVA pagata allo sponsee viene completamente recuperata in quanto detraibile al 100%;
  • il costo sostenuto integralmente dedotto dal reddito d’impresa.

Questa presunzione “assoluta”, sebbene a volte contestata, è supportata dalla giurisprudenza (da ultimo Corte di Cassazione n. 21333 del 14.9.2017). E’ sempre fatta salva la possibilità di dedurre, da parte del soggetto sponsor, somme anche superiori a tale soglia, fermo restando l’onere di dimostrare requisiti formali e sostanziali (inerenza, congruità ecc.) del rapporto di sponsorizzazione.

 

Dal lato sponsee (ASD/SSD) le somme ricevute quale corrispettivo della attività di promozione, essendo qualificabili come proventi di natura commerciali, impongono l’apertura di una partita IVA e la relativa tassazione in base al regime fiscale scelto dall’ente/società sportiva. Si ricorda che gli enti no profit optando per l’applicazione del regime di favore di cui alla Legge n. 398/1991 possono godere dei seguenti benefici:

  • Versare solo il 50% dell’IVA incassata dalle operazioni di pubblicità/sponsorizzazione (trattenendo la parte rimanente come ulteriore fonte di finanziamento);
  • Calcolare le imposte dirette solo sul 3% dei ricavi conseguiti a tale titolo.

Questa situazione di vantaggio fiscale, purtroppo, contribuisce al fenomeno della sovrafatturazione che consiste nella pratica di far fatturare al soggetto che gode delle maggiori  agevolazioni fiscali (ASD/SSD in regime di 398/91) somme anche molto superiori rispetto alla prestazione erogata (pubblicità o sponsorizzazione) e all’effettivo ammontare di denaro che viene fra le parti realmente concordato. A fronte del pagamento integrale della fattura maggiorata, infatti, segue la restituzione di buona parte del corrispettivo (spesso in contanti, fuori dai registri contabili). Il risultato è che lo sponsor (impresa) deduce più di quello che ha effettivamente speso, con evidenti vantaggi fiscali e lo sponsee (ASD/SSD) in regime di 398/91 lucra il 50% dell’IVA sul maggiore importo fatturato e subisce una imposizione fiscale sul totale fatturato assolutamente irrisoria (circa 1%).

Tale pratica, che fino a pochi anni fa rappresentava quasi una “prassi”, può configurare reato penale.
L’art. 1, lett. a) d.lgs n. 74/2000, infatti, definisce quali “fatture inesistenti” anche documenti che indicano corrispettivi o IVA in misura superiore a quella reale. Indipendentemente dall’importo della fattura falsa utilizzata (art. 2) o emessa (art. 8), la pena è rappresentata dalla reclusione da un anno e sei mesi a sei anni.